Tripoli, bel suol d’amore (di Diplomaticus)

Quattro ostaggi italiani nelle mani di non si sa chi. Due vengono uccisi in uno scontro a fuoco, gli altri due dopo ventiquattrore sono di ritorno in Italia. Un miracolo per le loro famiglie, un’angoscia per quelle di coloro che sono stati ammazzati. Tutto questo accade in Libia, a due passi dalle nostre coste. La morte di Gheddafi ha messo in movimento le varie fazioni, ha aperto le strade al Califfato, ha sconvolto i normali canali diplomatici. I misteri si aggiungono ai misteri. Che cosa è stato fatto in questi otto mesi per liberare i quattro ostaggi? Mistero. Quanto è stato pagato per avere gli altri due? Si dice, almeno due milioni di dollari. Perché non sono stati pagati prima che due di loro morissero? Mistero.

Si dice che i nostri servizi in questo momento sono molto attivi in quel territorio. Sarà, ma il mistero fa comodo a tutti, anche agli incapaci (la vergognosa vicenda dei nostri marò ancora in India è sintomatica).

I misteri della politica italiana s’intrecciano con quelli libici. L’Italia è la cassaforte del terrorismo. Basta sequestrare qualcuno e noi paghiamo. Lo abbiamo fatto per le due sventate che andarono in Siria, lo facciamo in continuazione. Non rischiamo come gli Israeliani o gli Inglesi o gli Americani o i Tedeschi o i Francesi. Noi siamo per la pace, a suon di dollari.

Adesso si pensa che dovremmo andare in Libia. Abbiamo avuto anche il placet di Washington. Guideremo una coalizione d’interventisti. Per fare che? Il governo sostiene che si muoverà solo se ci sarà una richiesta d’intervento da parte di un governo libico serio. Quale?

Al momento ci sono un governo provvisorio di transizione, a Tunisi, con a capo Fayez al-Sarraj, che non riesce neppure a mettere piede in Libia, un governo a Tobruk ed un altro a Tripoli, un generale sussidiato dall’Egitto, Khalifa Haftar, e l’Isis che, sin dall’arrivo di Al Baghdadi in Libia, ha guadagnato terreno nell’area di confine con la Tunisia, controllando 180 miglia di costa e città come Tarablus, Fezzan, Barqah e Sirte. Forte di 8000 uomini, di cui più di 3.000 sono tunisini, l’ISIS sta distruggendo gli impianti petroliferi esistenti per indebolire le risorse finanziarie libiche e semina il terrore con stragi efferate nei confronti della popolazione civile, spesso alla fame.

Dunque, sono almeno cinque i poteri che si contendono la Libia. Ma poi ci sono i poteri locali, a Derna, ad esempio, a Misurata ed ora, da ultimo, a Sabratha.

Restaurare lo stato libico per assicurare la stabilità nel Mediterraneo non è questione da poco. Prima di tutto, occorre chiedersi: c’è mai stato veramente uno stato libico? Solo Gheddafi era riuscito a tenere in piedi un simulacro di stato tra i vari clan esistenti nel Paese. Morto lui, è crollato tutto, un po’ come con Saddam Hussein in Iraq. Rimettere assieme i cocci, dopo la bella pensata anglo-francese,di abbattere il regime di Gheddafi, ogni giorno diventa più difficile.

Cirenaica, Tripolitania e Fezzan sono diverse fra loro ed in Libia stanno male assieme, se non c’è un regime forte a tenerle unite. Per questo, forse, una federazione sarebbe auspicabile. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo e, tanto meno, di farlo capire. L’illusione delle sovranità nazionali è così forte che rimaneggiare errori voluti da interessi estranei al Paese sembra impossibile. Ma è inevitabile che finisca così.

Gli interessi italiani (ed europei) sono per la stabilità di un’area importante dal punto di vista energetico e geografico, ma nessuno sa come garantirla.

Non si può andare in Libia alla carlona con il tono di chi dice “ora aggiusto tutto io”. In Libia ci siamo bagnati più volte ed è sempre finita male. Purtroppo, ci dovremo tornare, ma a fare che?

I fronti da combattere sono almeno due: contrastare i governi “locali” a favore di un governo riconosciuto dalla Comunità internazionale e respingere l’avanzata del Califfato. Roba da niente.

Se c’è confusione in Libia, altrettanto ce n’è in Italia. Fare una guerra non è cosa facile, specie in questo caso. Di guerre ne abbiamo fatte parecchio e tutte male. Con la cultura dominante del pacifismo a tutti i costi, abbiamo un esercito mandato a morire in luoghi lontani, per un imprecisato interesse nazionale, ma in nome della pace. Anche Hitler voleva la pace, a suo modo. Noi non abbiamo un nostro modo, ma solo quello altrui (o americano o delle Nazioni Unite, che poi è la stessa cosa).

Il governo tentenna, e una volta tanto fa bene, ma la Libia, purtroppo, è anche e soprattutto affar nostro. Inutile illudersi di farla franca, pagando qua e là cialtroni e terroristi.

Il primo obbiettivo di una nostra azione dovrebbe essere soprattutto politico e, poi, eventualmente, militare. L’obiettivo politico è ancora lontano, al momento. Se i vari leaders libici non si mettono d’accordo fra loro, è inutile illudersi che lo possano fare sotto la bandiera italiana. Un’occupazione manu militari è impensabile. Nella situazione attuale si deve scegliere qualcuno su cui fare affidamento. Forse il generale Haftar, che è sostenuto dall’Egitto, avrebbe delle chances, se sostenuto anche dalle potenze occidentali, e potrebbe dar vita ad un regime autoritario in grado di placare le varie dissidenze regionali, sempre che non si voglia addivenire ad una federazione (come, probabilmente, finirà in Iraq). I nostri servizi segreti sono all’opera, ovviamente, nell’oscurità. Ma stanno lì per brigare o perché hanno una direttiva politica precisa?

Il secondo obiettivo, forse ben più importante, è quello della lotta contro il Califfato islamico. Il vero pericolo avvertito dalla Comunità internazionale è l’ISIS. Contro l’ISIS non bastano i servizi segreti come non sono bastati i raid aerei in Iraq ed in Siria.

Occorrono truppe corazzate, intelligence e decisioni tempestive. Le forze occidentali non potranno respingere l’ISIS se non saranno coadiuvate dalla popolazione locale e dai vari capiclan che esercitano il potere sul territorio.

Per questo la soluzione della politica interna della Libia diventa primaria, se si vuole effettivamente contenere e distruggere il contagio jiadhista, prima che il fuoco divampi in Tunisia (sono 3.000 i foreign fighters tunisini), in Egitto, in Algeria e si congiunga con le forze di Boko Haram. Se questo malauguratamente dovesse avvenire, tutta l’Africa diventerebbe incontrollabile.

Inutile dire che il nostro Paese non potrebbe non essere coinvolto da questa possibilità. A parte gli interessi economici, a parte la questione dell’immigrazione africana, un intero continente che ribollisca a due passi dalle coste italiane sarebbe la fine delle nostre illusioni pacifiste.

Ecco perché il problema libico è grave, immanente e, apparentemente, gravido di minacce per noi e per l’Europa.

 

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