Canapa industriale, la mala politica

Solo nel tentativo di fare un po’ di chiarezza nella massa di bugie che girano in questi giorni: condivido l’articolo dell’Avv. Dario Dongo, esperto in materia.

Canapa industriale, la mala politica

Si è appena concluso l’iter di notifica a Bruxelles dello schema di regolamento del Ministero della Salute sull’impiego della canapa negli alimenti. (1) Commissione europea e Spagna hanno presentato commenti, la Repubblica Ceca un’opinione motivata in cui si evidenziano i limiti del provvedimento italiano, ancora una volta discriminatorio nei confronti delle proprie imprese agricole e di trasformazione.

La Cannabis Sativa L. è frattanto tornata alla ribalta delle cronache per via di un ministro che si atteggia a ‘fare di tutta l’erba un Fascio’. Senza distinguere tra la canapa industriale – che si coltiva in Italia fin dal Medioevo e vive ora una ripresa utile a incrementare i redditi degli agricoltori – e le varietà di canapa con effetti psicotropi. Come mettere assieme la camomilla con la cicuta. In malafede, poiché i ‘canapa shop’ – i nemici della settimana di Matteo Salvini – sono soggetti a meticolosi controlli e analisi, in Italia. Le attività criminali riguardano altre sostanze e si verificano altrove, anche alle scuole medie e superiori, ed è lì che il ministro dell’Interno dovrebbe semmai rivolgere l’attenzione.

Canapa alimentare, note di Bruxelles sul decreto italiano

Il ministero della Salute, si ricorda, ha notificato a Bruxelles il 30.10.18 uno schema di regolamento dedicato all’impiego di canapa nelle produzioni di cibi e integratori alimentari. Il provvedimento definisce la ‘canapa per uso alimentare’ e stabilisce i limiti di tetra idro-cannabinolo (THC) ammessi su ‘semi, farina ottenuta dai semi, olio ottenuto dai semi’.

La Commissione Europea ha chiesto all’Italia di introdurre una clausola di mutuo riconoscimento dei prodotti realizzati in altri Paesi membri. Tale clausola potrà venire inserita in apposite linee guida, al preciso scopo di prevenire l’adozione – da parte delle autorità di controllo, in Italia – di misure che arrechino pregiudizio alla libera circolazione delle merci nel Mercato interno. La questione può risultare critica in relazione a prodotti, quali l’olio di canapa, ove l’Italia ha definito soglie di THC particolarmente rigorose, se non impossibili da raggiungere (5 mg/kg, a fronte dei 20 mg/kg stabiliti in Irlanda).

La risposta salomonica del Ministero della Salute conferma la criticità, ipotizzando valutazioni ‘caso per caso’ (da parte di quale autorità, secondo quali criteri?) che espone gli operatori di settore a gravi incertezze sulla legittimità dei singoli prodotti venduti in Italia e nelle sue singole Regioni. L’amministrazione nazionale ha invero affermato che ‘il mutuo riconoscimento è condizionato dal diritto di scrutinio che lo Stato membro di destinazione può esercitare sull’equivalenza tra il grado di protezione garantito dal prodotto in esame e quello garantito dalle norme nazionali’. (2)

Soglie di THC nei cibi, Italia-Spagna-Cechia a confronto

La Spagna ha commentato lo schema di regolamento italiano obiettando il riferimento alla ‘canapa ad uso alimentare’ in senso lato, anziché a ‘semi e derivati dei semi di canapa’. A ulteriore riconferma dell’esigenza di chiarire una volta per tutte, a livello europeo, la legittimità d’impiego di ogni parte della pianta – ivi compresi i fibrosi steli e le infiorescenze – nelle produzioni alimentari. Madrid ha poi chiesto perché la valutazione del rischio da parte dell’ISS abbia considerato solo la somma di delta 9 THC e precursori anziché una sola frazione del THC, secondo l’approccio adottato da Efsa. (3)

Il governo ceco ha affermato la necessità di armonizzare a livello europeo le soglie di THC da ammettersi nei vari alimenti. Sulla base di una valutazione del rischio univoca, che la Commissione europea avrebbe già dovuto affidare all’Efsa dopo avere riscontrato la difformità delle valutazioni finora espresse nei diversi Paesi membri. (4) Ma sulla canapa a Bruxelles c’è gran puzza di bruciato, come chi scrive ha denunciato più volte.

La Cechia, nel proprio parere motivato, ha altresì dedotto l’arbitrarietà della definizione di ‘prodotti a base di canapa’, nel provvedimento italiano. E il Ministero della Salute, per giustificare le lacune del provvedimento, ha offerto una risposta fuori tema. Precisando che ci si riferisce alle ‘varietà di canapa coltivabili nell’Unione Europea, con un contenuto di THC non superiore allo 0,2%’. Ma non è questo il punto. Si tratta invece di spiegare perché l’Italia non abbia compreso nell’elenco – come invece doveroso – le infiorescenze di canapa. (5)

Canapa e fiori, redditi agricoli in fumo

Il MiPAAFT ha a suo tempo chiarito, con circolare 22.5.18, le modalità di coltivazione della Cannabis Sativa L. Per favorire l’attuazione della legge 242/16, tesa a promuovere e valorizzare questa coltura in Italia. La disinformazione e gli equivoci si sono tuttavia succeduti, fino a tutt’oggi, causando incertezze sulle opportunità di incrementare i redditi agricoli grazie a una pianta con alte rese e scarse pretese. I cui raccolti offrono materie prime preziose per alimenti e cosmetici, nonché co-prodotti per la bioedilizia e le bioplastiche.

A livello europeo si deve chiarire in via definitiva la possibilità di utilizzare ogni parte della Cannabis Sativa L. nella produzione di alimenti e integratori, dopo avere armonizzato le soglie e modalità di computo di THC sui vari prodotti. Sulla base di una valutazione del rischio da affidare a Efsa (European Food Safety Authority), tenuto conto degli apporti legati alle modalità di consumo dei diversi alimenti. (6)

L’attuale situazione di stallo, che il ministero della Salute purtroppo non ha risolto, espone gli agricoltori italiani a un pregiudizio grave e beffardo:

– da un lato si ostacolano gli operatori italiani che intendano legittimamente confezionare a uso tisana infiorescenze da varietà di canapa iscritte nel registro delle specie botaniche ammesse nel Catalogo Unico Europeo (selezionate per il ridotto tenore di sostanze psicoattive),

– d’altro lato si riconosce l’impossibilità di ostacolare la commercializzazione in Italia di identici prodotti realizzati in ogni altro Paese del mondo.

Gli operatori italiani subiscono l’ipocrisia di una politica che si direbbe piuttosto rispondere agli interessi contrapposti delle ‘Corporation’ di altri settori. Big Tobacco, da un lato, vuole escludere la concorrenza della canapa industriale con il proprio regime di monopolio (sebbene la combustione rappresenti una forma inappropriata d’impiego delle infiorescenze). Big Pharma, d’altro canto, vuole arrogarsi il monopolio sull’impiego di ogni sostanza a elevato valore aggiunto (es. CBD).

L’amministrazione sanitaria avrebbe ben potuto risolvere i problemi sopra descritti, ma è in tutta evidenza vincolata dagli ordini di scuderia. E le confederazioni agricole, anziché alzare la voce per tutelare i propri associati, mostrano ‘cuor di coniglio’. Come meglio si addice a chi tiene cara la propria poltrona sopra ogni cosa.

Infiorescenze, giurisprudenza attesa e controlli da raccomandare

La Corte di Cassazione ha richiesto l’intervento delle Sezioni Unite per risolvere un’altra vicenda che aggiunge incertezze al già aleatorio scenario sopra descritto. (7) La vendita di infiorescenze di canapa è stata invero oggetto di diverse condanne, confermate dalla Cassazione negli anni più recenti. (8) Ma la stessa Corte, in altri casi, ha invece ammesso la vendita di fiori di canapa in quanto privi di effetti psicotropi. Tenuto anche conto degli obiettivi della legge 242/216, mediante la quale il legislatore ha inteso stabilire una filiera italiana della canapa anche per uso alimentare. (9) La pronuncia delle Sezioni Unite è attesa il 30.5.19.

La questione che dovrebbe venire affrontata con serietà attiene piuttosto ai controlli sulla tracciabilità delle sementi utilizzate dalle aziende agricole che coltivano canapa, in Italia come in altri Paesi UE. Laddove le maggiori rese di alcune cultivar possono spingere gli operatori disonesti a utilizzare semi diversi da quelli registrati nell’elenco delle specie ammesse, per ottenere maggiori rese degli estratti più preziosi (come il CBD). Praticando concorrenza sleale nei confronti di coloro che invece rispettino le regole.

I certificati di acquisto dei semi, soprattutto quelli di importazione, dovrebbero perciò venire sottoposti a controlli accurati. Non solo verifiche documentali ma anche analisi in campo, per verificare la corrispondenza genomica delle piante con quella dei semi oggetto di certificazioni. Un lavoro oneroso ma indispensabile, per garantire la sicurezza alimentare e la lealtà delle pratiche commerciali e la libera concorrenza. Fatti, non chiacchiere.

Dario Dongo

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